Cap. 7 Senza nessuno che potesse più vederla

Anthophoridae, sono fossili di api solitarie – una voce robotica ripeteva quelle parole. 

Olivia era sveglia ormai da dieci minuti, immobile fissava il pattern di luci e ombre proiettate sul soffitto. Sono fossili di api solitarie, aveva detto. Stavolta però era successo in un sogno. Aveva sognato di parlare con quella voce sconosciuta della notte precedente, quella che aveva gridato il suo nome dentro il boato del vento, ma stavolta senza alcun rumore. Avevano conversato del più e del meno, del lavoro che l’aveva portata a Fuerteventura, poi Olivia aveva accennato alle strane pietre trovate sulla spiaggia de La Concha. Le parole con cui le aveva descritte minuziosamente erano quelle che aveva annotato sul suo taccuino: “sono cilindriche, corpo irregolare, levigato, materiale arenario. Ma la caratteristica più importante è il foro sopra una delle estremità, più o meno profondo, un buco circolare. Perfetto nelle proporzioni, imperfetto nella fattura. Non è il frutto di un’azione meccanica. È una costruzione lenta e ponderata.”

Sono bozzoli di api solitarie, aveva risposto sicura quella voce femminile. 

Adesso che era sveglia era certa che quell’informazione fosse stata celata dentro di lei e, data la necessità, fosse riemersa prendendo forma in un sogno. Il suo inconscio le aveva suggerito una risposta che poteva aver dimenticato nel corso degli anni e aveva scelto la voce di quella donna.

Ripensò a come aveva urlato il suo nome, al telefono la notte precedente, non era stato un grido di paura, piuttosto l’aveva chiamata come si chiama qualcuno in giardino, ma subito era stata interrotta da quel frastuono. Ed era stato quello ad inquietarla più della chiamata stessa.

Ripensò anche all’uomo in uniforme, col binocolo, comparso subito dopo aver raccolto quelle pietre e, forse anche il giorno successivo, seduto sulla sporgenza silenziosa della montagna. 

Entrambe figure lontane, non riconoscibili, che sembravano in grado di osservarla da molto vicino. Loro potevano, ma Olivia non poteva vedere loro.

Quei personaggi, in qualche modo inspiegabile, le parevano connessi l’uno con l’altro, come per il quadro “La Tempesta” di Giorgione. L’uomo in uniforme osservava in eterno la donna svestita mentre la donna svestita rivolgeva uno sguardo pungente all’osservatore. 

Si chiese quale dei due personaggi realmente fosse: la donna o l’osservatore invisibile?

Tornò alla frase del sogno. I fossili. 

Attese qualche secondo, giusto il tempo di riprendere confidenza col corpo e si sedette sul letto. Guardò le pietre sul comodino. Ne prese una e la esaminò da vicino. Fossili di api? In che senso?

Effettivamente la forma ricordava un bozzolo. Le api solitarie non creano alveari ma singoli bozzoli come le vespe vasaie. Forse intendeva fossili di bozzoli di api solitarie.

Ebbe un’idea, corse in cucina, sotto il lavello aveva notato alcuni attrezzi tra cui un martello (chissà perché la proprietaria metteva a disposizione degli attrezzi da lavoro per i villeggianti). Guardò il pavimento, ma era troppo delicato; aprì la porta, davanti all’entrata il suolo era in pietra grezza. Uscì ancora svestita, tanto non passava nessuno. Incastrò uno dei bozzoli in una fessura e con decisione sferrò un colpo molto preciso.

Un tuono, in lontananza, Olivia cadde all’indietro dallo spavento. Forse era stato il rombo di una moto nella via adiacente. Il bambino dell’edificio accanto aveva ricominciato a piangere. Si guardò intorno, il cielo era sgombro.

Tornò con lo sguardo alla pietra appena spaccata.

Il bozzolo si era aperto in due, perfettamente, come una noce. Notò con stupore una nuova cavità perfettamente intatta profonda circa 1 cm. Quello che sembrava il fondo del foro sull’estremità superiore era in realtà un “tappo” oltre il quale si nascondeva un piccolo spazio inaspettato. Era incredibile poter osservare quel minuscolo vuoto rimasto sigillato per millenni. Chissà che odore avrebbe avuto l’aria di quel luogo se avesse avvicinato il naso subito dopo averlo aperto. 

Rimase china ad osservare le due parti del bozzolo immaginando di farsi piccola come un’ape per esplorare quel rifugio da un punto di vista più ravvicinato. Avrebbe potuto osservare meglio la tecnica antica delle sue antenate, magari avrebbe riconosciuto anche qualche segno distintivo, un’incisione, o la firma microscopica della sua creatrice.

Un piccolo grumo di polvere era scivolato via dalla cavità, spargendosi a terra. Si chiese cosa poteva essere stato un tempo: forse i resti della pellicola dell’uovo, forse un’ape stessa mai nata. 

Premette il dito sulla polvere e ne esaminò la consistenza rossastra fra pollice e indice.

Quasi come per istinto ne portò un dito alle labbra, delicatamente assaggiò qualche granulo, ma con sorpresa si accorse che non aveva alcun sapore, neanche un lievissimo fondo stantio o salato, niente di niente. Era una polvere totalmente sciapa. 

L’assenza di sapore è qualcosa di disorientante, pensò, ma non può che essere un requisito fondamentale della realtà. 

O meglio, quando troviamo qualcosa di insapore siamo certi di trovarci nella vita reale e non in un sogno. Nel mondo onirico infatti qualsiasi cosa, se assaggiata, è dotata di un sapore particolare, verosimile o meno che sia. Soprattutto ciò che tecnicamente non è commestibile.

Bisogna infatti assaggiare un palo della luce, una staccionata, un muro o una strada per capirlo.

Spesso le era capitato di trovarsi lucida in un sogno proprio grazie al sapore degli oggetti che la circondavano. Leccando ad esempio un carrello della spesa si era accorta che le cose, nei sogni, erano dotate di gusti nuovi, addirittura più intensi. 

Poteva accostare il senso del gusto all’immagine di un ponte sospeso, in corda e legno, costruito fra la sponda del sogno e quella della realtà. 

Immaginò che l’essere umano vi si trovasse inevitabilmente in mezzo, bendato e sospeso, teso in ascolto del fiume. Era portato ad oscillare verso destra o verso sinistra, in base al vento o al flusso dell’acqua che, talvolta, scavava i profili delle sponde e faceva allentare un po’ le corde. Non potendo vedere nulla, spesso il suo orientamento veniva meno, confuso anche dal rimescolio continuo dell’acqua. Solo avvicinandosi al corrimano in corda e assaggiando la sua superficie poteva stabilire effettivamente verso quale delle due dimensioni si stesse spostando. Da un lato le corde prendevano gradualmente sapore, nell’altro lo perdevano. Ma nessuna delle due sponde era davvero raggiungibile. Rimaneva sospeso lì, in mezzo al ponte, oscillando prima verso una e poi verso l’altra dimensione. Fino a che, il fiume, scavando gli argini sempre più a fondo, faceva franare i tiranti. Il ponte improvvisamente si allentava e l’essere umano smetteva di leccare le cose, abbandonato definitivamente alla corrente.

Tornando nell’appartamento con in mano le due metà del bozzolo si ricordò che proprio un ponte era dipinto al centro del quadro de “La Tempesta”. 

Nonostante la posizione privilegiata, era un elemento che non saltava subito all’occhio. Il fulmine e poi la donna erano i primi elementi a catturare l’attenzione dell’osservatore.

Si sedette alla scrivania e aprì il portatile, sentiva il bisogno di osservare nuovamente l’immagine del quadro di Giorgione. Erano mesi che non lo guardava. 

Aperto il primo link su Google, “La Tempesta” prese vita in tutta la sua irrequietezza, col suo scoppio di luce portatore di presagio. I personaggi ripresero la loro reale posizione nella composizione e non quella umanocentrica che si era gradualmente modificata nella sua memoria (che li vedeva speculari rispetto all’asse centrale). Le figure infatti non erano né centrali, né speculari, senza alcuna simmetria, perché effettivamente non erano loro il vero soggetto dell’opera. Lo era invece la natura stessa, scossa dallo squarcio del lampo e forse dal fremito del vento. I personaggi umani erano da sempre solo accessori del bosco.
Il ponte di legno si ergeva stabile su un torrente e fu allora che si rese conto che effettivamente l’uomo e la donna si trovavano sopra due sponde diverse, divise da un piccolo ruscello scuro – di nemmeno un metro di ampiezza e che forse era un affluente del fiume – ma pur sempre un corso d’acqua che separava i due mondi in modo netto.
Scorrendo i vari risultati della ricerca un’altra immagine, in bianco e nero, catturò subito l’attenzione di Olivia. Era intitolata “radiografia de La Tempesta”. Aprendola, per un attimo ebbe l’impressione che si trattasse di una copia del quadro oppure di una bozza, il soldato non c’era, ma al suo posto era ritratta una donna senza abiti, con le gambe parzialmente immerse nel ruscello. Scorrendo il testo capì che si trattava davvero di un’analisi a raggi x del quadro. Un terzo personaggio esisteva, ma era stato volutamente cancellato dall’autore, al suo posto invece era stato ritratto il soldato.

Perché quella donna era stata nascosta?

Per un attimo ebbe un brivido. Il ricordo della voce femminile al telefono tuonò nella testa. Le pareva inevitabile adesso il restringimento delle possibilità. Era chiaro che nel quadro le figure femminili fossero due e una delle due sarebbe dovuta essere la donna della chiamata, per forza. Lo schema del quadro, in cui trovare simmetrie con la sua vita, in qualche modo la confortava dalle cose inspiegabili.

E quale delle due donne era Olivia?

La prima, ben visibile, con lo sguardo pungente, scomposta sull’erba e con le gambe piegate come una triscele, oppure la seconda, seduta sulla sponda opposta in modo pudico, con un braccio molle sulla vegetazione, con le gambe immerse nel ruscello e lo sguardo basso verso l’acqua scura, che esisteva sì, ma che allo stesso tempo non esisteva più, cancellata forse da una tempesta, senza nessuno che potesse più osservarla?


…apparì sparì d’un tratto:

come un occhio, che, largo, esterrefatto,

s’aprì si chiuse, nella notte nera.

(Il Lampo, G. Pascoli)


Scusate la lunga assenza, ma d’estate non scrivo (cammino :D)

14 risposte a “Cap. 7 Senza nessuno che potesse più vederla

  1. Ci hai fatto aspettare, ma ne valeva la pena. Complimenti.
    Straordinaria l’immagine del ponte sospeso, da brividi.

  2. La pittura che invecchia lascia apparire gli strati sottostanti, chissà che “La tempesta” un giorno, dal suo letto asciutto, non lasci riapparire lei, “la cancellata”… forse già ora, rendendo l’invisibile un po’ meno invisibile, la tua scrittura accelera quel processo del tempo, agendo da alchimia… e chissà che lei, affiorando, non ringiovanisca, con la pelle levigata d’un ciottolo di fiume…

  3. [da assente ad assente (quasi una lettera)]
    Il destinatario “ideale”, di un messaggio o di una lettera vuota, è sempre un assente… non può che mancare, deve mancare, perché solo così resta ideale… l’invocazione a “lei”, “lui”, foss’anche un “tu”, è ogni volta ascesi, tensione d’anelito, incomponibile nell’immanenza del linguaggio… tra le due sponde del fiume di soglia, il ponte è già caduto, ma chi l’ha udito cadere?… Vivendo, disegniamo una costellazione di corrispondenze mancate, e quando finalmente giunge la luce, affacciandosi allo sguardo del suo pianeta, la stella si è già estinta, non è più… io, forse, se non presumo troppo, potrei essere per te quel pianeta, avendo letto e leggendo, con sempreverde passione, “I Racconti della Controra”, commosso dal cadere di foglie dei tuoi pensieri, e l’intensità sul finire, di tramonto, delle tue emozioni, distillate in lacrime regali di celebrazione… essere qui, senza dubbio, predispone il mio ruolo, perché in questo tuo luogo, così prezioso, intimo, esultante, io sono, ma senza occhi, voce, riso, e anonimo, poco più che numerico, non fosse per il dono della tua attenzione… ma alla domanda: desidero questo ruolo? Desidero… mancarti? Sì!… e no. Rispondo con “franchezza”, virtù funesta, demente. Desidero, che tu senta la mia mancanza, ma non desidero sentire, non più, io, la tua. Vedi? Non ti ho mai incontrata e già mi manchi! Ho nostalgia delle tue imperfezioni! Come sono debole, facile a contraddirmi, sostenendo un punto forse impossibile, ma anche così vero. Io ti scriverò fino alla notte dei tempi, o finché tu lo vorrai, ma il mio desiderio, temperato da delicato riguardo e “delicato fervore”, desidera desiderare, da un’altra distanza, la nostra distanza, e il vento di risonanza che è venuto a increspare, tersa, la nostra assenza…
    Forse, affluenti alla nascita, “pura ricerca” e “amuleto” sul letto scandagliato d’un fiume, “un giorno qualunque credo”, noi ci incontreremo…
    Tuo non tuo,
    un ragazzo di provincia

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