Cap 5. Il paesaggio avrebbe parlato per lui

Il corpicino nero giaceva solido sull’asfalto. Con la punta del piede Olivia lo spostò delicatamente verso il marciapiede, era leggero e rigido, doveva essere morto di colpo durante la notte. Frugando in tasca trovò un frammento di fazzoletto e lo utilizzò per raccogliere quel piccolo uccello della tempesta; lo depose poco più in là, oltre il muretto, dove le rocce erano macchiate di muschio arancio, in una conca trapuntata di vegetazione rossa, tipica del paesaggio.
In quel letto di colori era perfetto, sembrava dormire beato. Non resistette dal fotografarlo, la composizione era qualcosa di inaspettatamente struggente. Uccellino nero con macchia bianca su di un letto di piante rosse e qualche raro ciuffo verde, fra rocce grigie maculate di vivido arancio; poteva essere il titolo della foto. Pensò che in fondo era una degna sepoltura.
Buenos dias – un passante la salutò. La Capellanìa era un piccolo agglomerato di case residenziali, in parte abitate tutto l’anno, in parte affittate ai turisti, un pugno di modernità inghiottito da un paesaggio lavico, privo di alberi. Fuerteventura non era per niente il posto che si aspettava, brulicante di spiagge bianche, palme, cocktail bar, era piuttosto una valle lunare grigia, arida, a tratti verde sbiadito e senape.


Quella mattina l’aria sembrava purificata, il cielo sgombro, il terreno le suggeriva che un temporale era passato durante la notte, proprio sopra il suo capo, ma stranamente non si era accorta di nulla, era stata assorbita da un sogno. Ripensò alla chiamata e al lampo durante la notte. Tutto sembrava appartenere ad un ricordo lontano, o al sogno stesso, eppure era accaduto davvero. Appena alzata aveva controllato il cellulare, la chiamata c’era, numero sconosciuto. Durata 36 secondi.

Dato un ultimo sguardo alla tomba dell’uccellino infilò il libro nello zaino e s’incamminò verso la macchina che aveva preso a noleggio. Destinazione montagna Tindaya, il navigatore dava venti minuti.

Manuel Guerrero, poeta spagnolo esiliato a Fuerteventura nel 1924 sotto la dittatura di Primo de Rivera, aveva scritto Oltre Tindaya. Una mistura di leggende, autobiografia, delirio e sogni, a metà fra un libro di poesia e un manuale esoterico. In seguito alla sua scomparsa proprio su quell’isola era stato pubblicato postumo, incompleto, e totalmente ignorato per quasi cento anni; fino a quando, per qualche inaspettato bisogno sociale, qualcuno lo aveva rivalutato e ritenuto capolavoro. A Olivia avevano prestato una copia piuttosto malconcia, ma preziosa, della prima e unica edizione in italiano del 1927, con pagine marrone chiaro e decorazioni casuali di muffa. La osservava distrattamente, vibrava sul seggiolino mentre percorreva la strada sterrata verso Tindaya. Gli angoli arricciati si aprivano e chiudevano come se masticassero segreti.

Per Guerrero la relazione arcana fra organico e inorganico – fra noosfera e geosfera – condizionava profondamente ogni azione umana. L’inanimato influenzava l’animato, e viceversa. L’uomo era capace di diventare paesaggio ed il paesaggio poteva assorbire la coscienza dell’uomo.

Se attraverso l’osservazione di luoghi si diveniva capaci di non vedere l’uomo all’interno del paesaggio, quindi di considerare il paesaggio come unico soggetto possibile e l’uomo al suo interno come un semplice un accessorio, determinante ma non necessario, allora sarebbe stato possibile comprendere davvero la composizione cosmica. Così un certo critico di cui non ricordava più il nome riassumeva il pensiero dell’autore esiliato.

Ecco perché una nota casa editrice le aveva commissionato il progetto fotografico per illustrare quel libro, c’era bisogno di una veste nuova, più fresca e densa di colore. Adatta ad un grande pubblico. 

Noi ci fidiamo ciecamente, sei la prima fotografa a cui abbiamo pensato – ripensò alle parole dell’editore – tu vedi la composizione paesaggistica come espressione diretta della coscienza, sei la figura perfetta per questo progetto. Quei luoghi sono speciali e parlano già la lingua di Guerrero, da sempre, hai tutto il tempo che vuoi, osserva, attendi, gli scatti vengono da sé. Hai completa carta bianca.
Poteva rimanere a Fuerteventura quanto voleva, purché portasse a casa un progetto fotografico degno del capolavoro di Guerrero. Permanenza pagata e compenso piuttosto interessante. Sembrava un lavoro ideale, ma era proprio la libertà a metterla a disagio. Abituata ai limiti tecnici, economici e concettuali che le rendevano molto più facile ottenere il miglior risultato nel minor tempo possibile, d’un tratto si era ritrovata catapultata dentro la completa assenza di limiti, l’esatto opposto, che rendeva tutto estremamente paralizzante. 

Per questo aveva deciso di imporsi da sola alcune semplici regole. 

Non leggere il libro in primis. 

Poteva portarlo con sé, leggere alcune recensioni, studiare i luoghi, con tutta calma, ma senza sfogliare nemmeno una pagina. Solo alla fine, raccolte tutte le immagini necessarie, avrebbe potuto cimentarsi nella lettura. Non era sicura dell’efficacia di quella strategia, ma tanto valeva iniziare da qualcosa.  D’altronde la tesi di Guerrero è inequivocabile, universale, non c’è nemmeno bisogno di leggere le sue parole, pensò, il paesaggio avrebbe parlato per lui.

Tindaya si ergeva come un’escrescenza solitaria, caratterizzata dal profilo caratteristico dei vulcani inattivi; tutto intorno una piana sgretolata, la pianura dell’Esquinzo, chilometri di nulla che non facevano altro che slanciare la sua presenza.

L’assenza di alberi e vegetazione dava luogo ad un’illusione particolare. Quasi disorientante.

Abituata ai profili collinari toscani completamente ricoperti di boschi, campi di ulivi o file di vigneti, aveva imparato a percepire lo spazio lontano sulla base delle diverse sfumature di verde, che man mano tendevano al blu, sbiadito e umido. I tronchi di abeti, querce, o i cespugli di rovo modellavano lo spazio a modo loro, svelando o nascondendo certi anfratti inimmaginabili. Il paesaggio di Fuerteventura invece era completamente l’opposto, tutto era perfettamente in vista, nitido e a fuoco. Se avesse dovuto accostare i due luoghi a due diverse aperture di diaframma avrebbe sicuramente scelto f1.8 per il paesaggio toscano (che metteva a fuoco il vicino e sfocava in un morbido bokeh il lontano) e f22 per il paesaggio di Fuerteventura (tutto nitido e visibile, indipendentemente dalla lontananza). 

Intorno a Tindaya le distanze risultavano relative alla presenza o meno di persone. Ad un primo sguardo pareva una montagna molto alta, irraggiungibile, ma appena si scorgeva un camminatore lungo i suoi sentieri subito appariva ridimensionata, più piccola. Effettivamente era alta solo 400 metri, non era difficile raggiungere la sua cima.

Olivia ripensò al libro. Il paesaggio sembrava caratterizzato da dimensioni e proporzioni diverse in base alla presenza antropica. Senza figure umane aveva una forma, imponente, sconfinata, difficile da percorrere. Con le persone sui crinali pareva invece una modesta collinetta all’interno di un plastico molto realistico.

Quella mattina l’avrebbe passata interamente ai piedi della montagna sacra senza incamminarsi sui sentieri che portavano alla vetta. Avrebbe studiato i suoi profili percorrendo la strada intorno. Aveva con sé acqua, una piccola bottiglia di vino rosso da 330 ml e un tramezzino.

Trovò diversi ruderi di piccole case a cubo composte da una sola stanza, le mura erano in mattoni di pietra lavica appoggiati alla buona. I tetti, originariamente composti da travi di legno e paglia, si trovavano ormai completamente distrutti. C’erano grotte o spaccature utilizzate dalle culture preispaniche, i Guanches. Per loro Tindaya era il luogo di rituali magici e osservazione del cielo. Non era difficile immaginare il fascino ancestrale che nel tempo aveva esercitato sugli abitanti solitari di quell’isola. 

Olivia aveva notato che da una certa posizione il profilo della montagna sembrava pendere leggermente da un lato, come se si affacciasse verso il cielo con la schiena leggermente curva. Si decise a posizionare il cavalletto e tentare qualche scatto. Così, anche solo di prova. Attese che un grumo di nuvole si sfaldasse abbastanza da risultare allineato alla schiena della montagna, quella combinazione creava infatti una sorta di rampa verso il cielo. Un solo scatto. 

Non scattare troppe foto inutili era la seconda regola che si era imposta, come se dovesse usare un rullino di altri tempi. Poche foto ma buone, attese il tempo necessario.

Consumò il pranzo velocemente, seduta su un muretto circolare che un tempo era servito per contenere l’acqua. Al centro la terra rossa era durissima e spaccata da numerose crepe. Notò con molta sorpresa che non c’erano piccoli animali a cui lasciare qualche briciola del tramezzino, nessun insetto, serpente o roditore. Niente di niente, sembravano estinti. Decise di dare uno sguardo veloce allo scatto sul computer portatile. Il sole era ancora alto e lo schermo rifletteva quasi solamente il cielo macchiato di qualche nuvola. Copiò l’unico file della scheda sul desktop e lo aprì. Ovviamente necessitava di un po’ di postproduzione che avrebbe tirato un po’ su le ombre e smorzato le alte luci ma nel complesso la composizione funzionava. Aveva scelto un diaframma molto chiuso, appunto f22, per catturare qualsiasi elemento lontano. La definizione era notevole. 

Tindaya sembrava inchinarsi verso il cielo ma con lo sguardo verso il padrone, alla stregua di un cane fedele e impaziente di essere accarezzato. I resti di nubi lungo la schiena davano un senso di calore, come se cuocesse ancora del magma al suo interno. C’era però qualcosa di strano nel complesso della foto, qualcosa che non aveva notato in fase di scatto, probabilmente dei piccoli elementi di disturbo sparsi qua e là. Dato il riflesso del sole troppo forte sullo schermo posticipò ogni considerazione alla sera. Per quel giorno poteva bastare, aveva studiato tutto il perimetro della montagna e conosceva le diverse forme del suo profilo.

Parcheggiata la macchina poco fuori paese, s’incamminò verso l’appartamento. Nel villaggio regnava la pace, Olivia era stanca, aveva camminato per almeno 6 ore con lo zaino e il cavalletto. L’idea di chiudersi nella sua casetta spoglia, altrettanto silenziosa, e sedersi alla scrivania dopo una lunga doccia e un’insalata grondante di aceto balsamico, bastava a renderla felice. Qualcuno lo avrebbe ritenuto triste, ma lei no. Il rumore e gli estranei erano proprio le cose che più la mettevano a disagio, soprattutto lungo i viali affollati in cui può capitare di urtare o essere urtati. Era una di quelle persone che amano andare al ristorante da sole e che tutti guardano con sospetto. Per quanto rumorosi i ristoranti garantiscono uno spazio tuo e inviolabile, scandito dalle portate del cameriere, nessuno può oltrepassare il confine del tuo tavolo.

Lungo le vie de La Capellanìa ebbe modo di osservare l’architettura delle villette, rispecchiava l’essenzialità dei ruderi che aveva visto intorno a Tindaya. Tutte piano terra, cubi di mattoni neri in vista, poche piante, soprattutto grasse o piante di palma. Quelle abitate avevano molta vegetazione decorativa, vasi e colonie di gatti. Le grandi finestre sulla strada davano sulla cucina, era il tramonto e molti dei villeggianti preparavano la cena. Una ragazza era china sui fornelli, c’era uno sfrigolio di frittura, alle sue spalle un bambino biondo saltava sul divano, la tv del salotto doveva essere accesa perché lo illuminava in modo intermittente. Sentendola passare a pochi passi aveva alzato lo sguardo verso Olivia, che lo distolse immediatamente. Una cosa che amava era proprio sbirciare nelle case e cogliere un elemento famigliare a lei estraneo. Nel distogliere lo sguardo si accorse però di un fenomeno a cui non aveva ancora fatto caso.

La mezzaluna in cielo, rivolta con le punte verso l’alto, come una sottilissima conca, non l’aveva mai vista così prima d’ora. Si trovava proprio al centro della strada, e poco sotto si allineavano due stelle luminosissime. Due pianeti per la precisione, che non potevano che essere Giove e Venere in linea con la Luna. Era uno spettacolo pazzesco, oltre al fatto in sé di vedere la luna rovesciata, quella fila di astri accesi nel crepuscolo suscitava un’emozione quasi atavica. Uno stupore misto a terrore mistico. Si catapultò in una se stessa più antica, della tribù dei Guanches, molti secoli prima, di fronte ad uno fenomeno del genere. Non poteva che essere un grande presagio oppure un ottimo auspicio. Per quanto non credesse nel potere degli allineamenti in sé, che nel sistema universo non determinavano un bel nulla visto le distanze effettive fra pianeti, credeva piuttosto nel potere suggestivo del fenomeno sul singolo osservatore, in un dato punto dello spazio tempo, all’interno del sistema Terra, che trafitto dalla sua esclusività gli attribuiva un significato importante. 

La ragazza chiuse la finestra della cucina mentre Olivia montava la fotocamera sul cavalletto. Non poteva perdersi quello scatto. Otturatore aperto per 10 secondi per catturare più informazioni possibili. In quel breve lasso di tempo si sentì come una strega intenta a catturare un po’ di quella magia intrappolata nella luce degli astri.

Poco dopo le 21 si sedette alla scrivania col suo computer. Inaspettatamente aveva ben due scatti. Ripescò il primo che finalmente poteva esaminare. C’era sempre qualcosa che non tornava, l’idea della montagna inchinata e fumante funzionava ad un primo sguardo, ma c’era qualcosa che disturbava il senso della composizione, come un minuscolo messaggio subliminale ben nascosto. Forse i ruderi di case che sporcavano la pianura? Oppure i muretti circolari? Anche quelli piuttosto frequenti sull’isola. Essendo entrambi elementi antropici magari rompevano l’equilibrio naturale del paesaggio. Eppure ne erano parte, forse non si trattava di questo. Cominciò ad allargare l’immagine, che aveva molta definizione, controllando ogni dettaglio della montagna. D’un tratto lo vide, era impossibile vederlo ad occhio nudo nemmeno con l’immagine a pieno schermo, eppure c’era, e a quanto pare il suo inconscio lo percepiva. Un uomo, una figura minuscola, seduto su un ammasso di rocce quasi in cima. Non era chiara la direzione del suo sguardo ma sembrava proprio guardare verso la camera. Zoomando fino ai limiti dei pixel si accorse di un aspetto ancor più importante, le braccia erano piegate verso il centro del viso.

Olivia ebbe un piccolo sussulto. Non poté che ripensare all’uomo col binocolo sopra l’elicottero. Quello sguardo non sguardo che l’aveva punta due giorni prima, e l’aveva colpita forse proprio per l’assenza di un viso. Di nuovo qualcuno con un binocolo sembrava osservarla da vicino nonostante la lontananza. Dentro di sé c’era anche una parte più razionale che la rassicurava, era sicuramente un turista, di riposo dopo la lunga salita, le mani verso il viso magari reggevano semplicemente un panino. Eppure a primo impatto non poteva che suscitare inquietudine, primo perché non era riuscita a vederlo nel momento dello scatto, secondo perché sembrava avere un binocolo diretto proprio verso di lei. Era vestito di scuro, maniche e pantaloni lunghi, niente zaino a lato.

Incredibile – pensò – oltre al fatto che stia o meno osservando me, la sua presenza, che è apparentemente un dettaglio minuscolo all’interno della composizione, capovolge totalmente il senso della mia fotografia, d’un tratto non è più la montagna il soggetto, ma diventa inequivocabilmente lui. Uomo che osserva in cima ad una montagna.

Spense il computer e si coricò. L’omino seduto non usciva dai suoi pensieri. Non era possibile che stesse davvero osservando lei, ma anche solo la possibilità la turbava. 

Fuori filtrava il fruscio della brezza. Il silenzio era in mano alla luna rovesciata. Gli occhi di Olivia si fecero più pesanti e il corpo finalmente cominciò a sprofondare, come se fosse stato appesantito dalla polvere e dalle pietre. L’omino nero ondeggiò un po’ le gambe sul vuoto, seduto sulla sporgenza di una roccia, era chiaro che la stesse osservando, poteva scrutarla in ogni suo particolare, sdraiata su quel letto, sotto le coperte. Poi d’un tratto abbassò il binocolo e il suo viso non era altro che un astro brillante, come Venere. Un punto luce argenteo dotato di corpo. 

Sotto di lui giaceva Tindaya, sopra di lui: solo Giove e la Luna.


continua…


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6 risposte a “Cap 5. Il paesaggio avrebbe parlato per lui

  1. Bravissima, il romanzo scorre a meraviglia, come quei fiumi ampi e silenziosi che rimani a guardare senza accorgerti del tempo che passa. Grazie, Rebecca, avanti così.

  2. Raramente mi capita di restare così incollato a leggere un brano, rapito da un lato dall’incedere degli eventi e dall’altro dalle sensazioni che suscita…complimenti…spero arrivi presto il seguito.

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