Olivia! – gridò il telefono.
Sì, chi parla? – rispose con la voce rauca e gli occhi ancora attaccati.
Nel frattempo una folata di vento dall’altra parte si era scagliata sul microfono.
Chi è? Sono le 3 di notte diosanto!
Nessuno rispose. La voce femminile era quasi familiare, ma era distorta dal boato di fondo. Pareva che dall’altra parte ci fosse qualcuno in mezzo ad una tempesta. Il rumore continuava ad aumentare, bucava i timpani. Olivia riagganciò. Si sedette sul letto, fuori il tempo era assolutamente silenzioso, nessun filo di vento, la temperatura somigliava a quella di inizio Giugno. Ma era Marzo e non si trovava in Italia. L’appartamento che aveva preso in affitto era del tutto impersonale, alle pareti erano appese alcune stampe pacchiane di grattacieli che nulla avevano a che fare col paesaggio di Fuerteventura, alternate a mensole vuote o scritte banali in corsivo. Follow your dreams, era inchiodato proprio davanti al suo letto.
La stanza, lievemente rischiarata dalla luna, emanava un’aura diversa dopo quel risveglio, non più luogo di rifugio e tranquillità, ma inquietudine cupa. Il suono del vento distorto dall’altoparlante rimbombava ancora nell’aria, sembrava che avesse aperto una breccia invisibile nella quiete. Si rese conto che l’ansia, causata da quel brusco risveglio, era del tutto normale. Il sonno interrotto crea ipersensibilità e tendenza alla paura irrazionale, pensò. Decise di attuare subito una strategia per combatterla: contare o catalogare cose. Le strane pietre che aveva raccolto ad esempio. Erano sul comodino a portata di mano, sopra il piccolo quaderno di pelle con gli appunti del mattino. Non accese nemmeno la luce, oramai la vista si era abituata al buio. Una, due, tre. Sette pietre. Tutte col foro di un centimetro piú o meno intatto. La superficie era quasi lisciata dallo sfregare di vento e sabbia. Non erano state create dall’uomo. Erano forse coralli?
Concentrarsi sulle teorie della loro possibile provenienza riuscì a distrarla per qualche minuto, se non fosse che accadde qualcosa poco dopo, probabilmente qualcosa peggiore della chiamata.
Un lampo di luce, quasi al centro della cornice della finestra, esplose in un boato terribile. I vetri tremarono. Le pietre caddero sparse fra le coperte. Olivia fece in tempo a voltarsi per osservare la crepa elettrica stampata sul cielo. Rimase visibile per pochi secondi per poi svanire senza alcuna fretta. Non si era accorta che la luna in realtà si trovava coperta da uno strato di nuvole e che era un lampione a rischiarare la stanza. Si alzò, aprì finestra e l’aria portava l’odore di pioggia. Un neonato cominciò a strillare in un appartamento vicino.
Le casette vacanze, tutte di forma cuboidale, si trovavano l’una vicina all’altra, aperta la finestra era possibile sentire ogni singolo respiro dei vicini. Ma nonostante il pianto, tutto intorno emanava quiete.
Olivia rimase in piedi ad osservare il paesaggio, indossava solo una maglietta bianca di cotone, le gambe bianche assumevano una glauca sfumatura di fantasma. Ripensò alla voce di donna, a come aveva gridato il suo nome e al vento che sbatteva sul suo telefono. C’era forse una connessione fra quei due eventi? La chiamata, il fulmine poco dopo.
Il neonato continuava a piangere non lontano, nessuno andava ad accudirlo.
Fu allora che ebbe un’intuizione (stranamente tranquillizzante), le tornò alla mente un’immagine, un quadro tanto bellissimo quanto misterioso. Chiuse gli occhi per provare a dipingerlo nella sua mente ed esaminare i suoi innumerevoli dettagli. C’era, in primo luogo, ovviamente il fulmine bianco che squarciava la tela, in alto ma non al centro, verso destra, incorniciato da due colonne di alberi, le foglie erano fittissime. Subito sotto si trovava un piccolo ponte in legno, esattamente al centro. Un argine di un ruscello era molto presente in basso sulla sinistra, invece sull’erba verso destra c’era una donna seminuda, appoggiata ai piedi del boschetto, con un rotondo neonato attaccato al suo seno, e guardava dritto in camera, sfondando lo spaziotempo. Aveva uno sguardo indecifrabile quella donna, pareva invitarti nel suo mondo di protezione e allo stesso tempo giudicarti per le tue colpe. Quel quadro era la Tempesta di Giorgione.
C’era anche un soldato in piedi, a sinistra, proprio davanti ad alcune colonne spezzate, era appoggiato ad un bastone. Dato che non potevi reggere troppo a lungo lo sguardo della donna eri portato inevitabilmente a spostare l’attenzione su quel soldato, quasi accanto alla cornice, aveva gli occhi in ombra ma il naso dritto su di lei, osservava la donna che osservava te. Un triangolo arcano, pensò, un circuito elettrico che poteva attivarsi solo nel momento in cui posavi lo sguardo su di lui. La durata poteva essere un attimo ma anche un loop infinito, forse scandito dallo squarcio del lampo. Osservatore, soldato, donna, osservatore. Cosa connetteva quell’uomo a quella donna? E cosa connetteva quella donna all’osservatore?
Dopotutto non poteva che essere il circolo di sguardi a generare il fulmine stesso.
Il Punctum di Roland Barthes – pensò – funziona con lo stesso principio: la capacità di pungere l’osservatore: l’immagine che genera una relazione elettrica.
Ecco che riemerse anche il ricordo dell’uomo col binocolo che aveva visto quella mattina. Nel suo quaderno aveva appuntato ogni cosa. Forse aveva guardato Olivia così come il soldato guardava la giovane madre.
Magari sono anch’io come la donna del boschetto – pensò – tutti quanti prima o poi diventiamo la donna di un quadro inspiegabile.
L’uomo col binocolo e il soldato, la voce al telefono e la donna seminuda, il pianto e il poppante: cominciò ad assemblare questi elementi per trovare una combinazione convincente. Un grande uccello ruppe la quiete del paesaggio e andò a posarsi sul tetto di un appartamento lontano. Pareva la piccola cicogna lontana che si intravede sul tetto più alto della Tempesta, quasi un segno unico; ecco che il quadro era quasi completo.
Tornò a letto, consolata dal ricordo di Giorgione e da quella strana corrispondenza di fenomeni e cose. Chiuse gli occhi e cominciò a immaginare i suoni del boschetto, il venticello che sfogliava gli alberi come pagine, che sfogliava le foglie…ecco un abbinamento di parole a cui non aveva mai pensato prima: sfogliare le foglie, foglie che sfrigolano, o che cadono come fogli tagliuzzati dentro il ruscello. Poi un lampo lontano, un leggero rimbombo distante che piuttosto sembrava provenire dal suo corpo, o da sotto il letto, qualche battito d’ali che fuggiva i rami più alti e poi una brezza che prima muoveva piano le cose o i capelli, poi iniziava a sgretolare le superfici come sabbia, per condurre infine al buio del sogno. Lo seguì, si abbandonò al sonno, come suggeriva la sua stanza. Fuori le pagine degli alberi cominciarono a scuotersi, come dita minuscole qualche goccia picchiettò sul vetro, anche se la sua mente si trovava già altrove ebbe la sensazione che una tempesta sarebbe arrivata davvero.
Racconti della Controra è disponibile su:
IBS || FELTRINELLI || AMAZON
Scrivi sempre cose interessanti, accompagnate da foto o da panorami che mettono sempre il punto su tutto. Mi piace la lettura in questo tuo spazio 😀
♥️ grazie davvero
meraviglia!!! ♥️
🙏
Non spendo parole per descrivere di nuovo la magnifica narrativa avvolgente che mi cattura e mi rende tutto così vivido. Dalle mie parti la Controra ha una sorta di sacralità: è non solo il momento della popolana siesta, ma è quel momento della giornata in cui il sole è sospeso tra l’ascendenza e la discendenza, un momento di tempo in sospensione, di divenire, di capovolgimento. È difficilissimo descrivere un tale intervallo nella sua caoticità , tu ci riesci con una naturalezza disarmante. Complimenti ✍🏻
Grazie, mi fai ricordare nuovamente cos’è la controra! ♥️
A volte me ne dimentico io stessa
Sempre bello leggerti e comprendere la tua passionalità letteraria. Buon proseguimento di giornata 🌹
❤️❤️
Scrivi sempre ponendoti alta rispetto a ciò che descrivi, a ciò che racconti e poi, d’un tratto, diventi tu stessa elemento del quadro, che attira, che avvince il lettore. Grazie per il tuo like!
Ciao Rebecca :-)
Il mio sguardo è viziato e di parte. Non riesco a leggere la prosa, uno stile disteso che sostenga la distanza, senza pensare che sia propedeutica alla poesia, che è una forma sintetica, terminale. La prosa si scrive per esercizio quotidiano necessario, la si scrive anche e soprattutto quando non la si scrive, non sulla carta almeno, ma sul vivente foglio-mondo, osservando-si e osservandosi intorno, descrivendo quello che si ha a portata di mano, occhio, orecchio, e mente: intendiamo per “intorno” sia il fuori che il dentro, assumiamo quindi di essere, noi, la soglia sottile, la membrana osmotica che s’interpone tra i due, il demi-monde che si permea d’entrambi.
Il tuo esercizio di prosa è visivo, è un mondo di immagini plastiche, per dirlo con espressione campaniana, anche lui amante della pittura italiana sua coeva e passata, come Giorgione, Tiziano, Leonardo, di cui amava tanto le figure che i paesaggi. Ma nel tuo caso questo esercizio plastico, che ora si esprime a parole folgorando una limpida sequenza di immagini, non è già la sceneggiatura di una visione, di un film? Come potrebbe essere un film di Rebecca Lena? Me lo sono già chiesto, tra me e me, più volte e con stupore. Non “oso” immaginarlo ma sarebbe senza dubbio meraviglioso ed io mi capitombolerei a vederlo. Ingiustamente e arbitrariamente, io lo immagino (quindi “oso” dopotutto, è più forte di me…) come un mix organico di Tarkovskij e Lynch, spirituale e lisergico insieme. Ma queste due illustri referenze non bastano a fare da coordinate all’avvento della tua sensibilità, che sarebbe (e sarà, com’è sempre stata) un’epifania dolcissima.
Se potessi parlare senza timore d’essere frainteso, parlando della tua sensibilità io parlerei propriamente di femminilità, senza prevenzioni o pregiudizi di genere. Femminilità che per me non vuol dire banalmente essere sessuati alla maschile e/o alla femminile ma essere trasversalmente i migliori invasi di ricezione, i migliori riceventi e quindi creatori, le nature più vicine alla natura, più simili alla luna e al mare, più parte di tutto questo tutto, e per questo più adatte ad accoglierne, a celebrarne. E la femminilità, così intesa e così intensamente in te declinata, sarebbe, ed è, la tua autentica differenza, irriducibile a qualunque, pur illustre, referenza.
Quindi, che dire? Non ti resta che essere te stessa, il più fedele e aderente, registrandoti “pedissequamente”… e se un giorno farai un film, io sarò lì, con stupore, a celebrare la celebrazione, la tua ennesima… intanto continuo a leggerti e a osare immaginare…
Grazie! Concordo :) probabilmente il fatto scrivere per immagini è influenzato dal mio lavoro (appunto il video). Allo stesso tempo, attraverso la prosa, vorrei provare ad allontanarmi un po’ da me stessa e vedere che succede