Cap. 4 Gli alberi sono gli strumenti dei morti

Senti là che frastuono oggi!

Tai, con lo sguardo fisso nel vuoto, sobbalzò sulla panchina, un signore anziano si era seduto a mezzo metro da lui.

Parla dei piccioni? – rispose educatamente a quell’uomo.

Macché piccioni! Senti come chiacchierano forte oggi – sbraitò sguaiato, gesticolando con la mano – allora? Che la finite di ciarlare così?!

Tai vide che il signore anziano si rivolgeva un po’ tutto intorno, anche se non c’era nessuno, probabilmente aveva qualcosa che non andava. Avrebbe potuto alzarsi e salutarlo cordialmente, ma era proprio il tipo di persone con cui riusciva a chiacchierare volentieri. I discorsi di cortesia, sul tempo, la politica, i ritardi della sita, in genere non attiravano molto la sua attenzione, sviava educatamente ogni passante che si approcciasse a lui tanto per passare il tempo. Con un vecchio pazzo invece valeva la pena intrattenersi.

Scusi con chi ce l’ha di preciso? Non vedo nessuno.

Ma come, un li senti sti alberacci? Non fanno altro che ragionare e ripetere sempre le stesse cose. Oggi e son scatenati!
Il giardino della fortezza di Firenze con la sua grande vasca centrale si trovava circondato da grandi cedri o abeti. Tai si guardò intorno osservando le spesse cortecce.

Gli alberi stanno parlando?

Son loro e un son loro, gli alberi son le parabole, le parole sono di qualcun’altro, non la conosci la proprietà peculiarissima di questo giardino? – Tai osservava la drammaticità dei suoi gesti mentre parlava – non la conosco no, mai sentita, m’illumini!
Devi sapere che qui ci sono un sacco di tossici, di drogati capito? E pure parecchi barboni – Sí, lo so, ogni mattina vedo sempre una fila di tende tutto intorno alla fortezza, poverini – ecco, loro dormono tutti i giorni qui, però è possibile che qualcuno ci resti secco durante la notte, sai quando fa parecchio freddo qui t’entra l’umido fino a i cuore. E loro quando muoiano rimangono qui, perché quegl’altri compari non vogliono mica che si sappia! Che poi viene la polizia o l’ambulanza, li lascian lì, morti, fra le siepi, con qualche foglia addosso gli fanno i funerale e dopo qualche giorno li scompaiano del tutto! Io lo so perché li controllo, li vedo con quest’occhi che grazie ai dio ce li ho ancora boni. Scompaiano completamente – il gesticolare cresceva in drammaticità, così come il tono della voce – e lo sai perché? Perché ci intervengono questi vecchi alberacci. Con le radici li aggrappano e li tirano giù. Per questo un tu li vedi più, ne senti i fetore. “Lo metton sotterra che niuno lo tocchi” – citò.

Dice che se li mangiano gli alberi?

Nono, ma icché mangiano, li portan giù, poi si decompongano sottoterra, io un lo so, come fo a vederli sottoterra. Ma qualcosa ci fanno, gli entrano con le radici ni cervello e assorbono i pensieri te lo dico io. I ricordi, o le manie di que poveracci se li prendono tutti! 

E quindi dopo… li “trasmettono” fuori? – chiese Tai completamente assorbito da quella storia.

Certo! Gli alberi son gli strumenti dei morti. Come l’antenna della radio, riproducono i chiacchiericcio a ripetizione e quand’è umido, perché l’ha piovuto, c’è un rumore assordante. Un son sicuro ma forse l’umido favorisce la trasmissione. 

Come si chiama lei? – Interruppe Tai estasiato.

Io son Bruno, so i sindaco della Fortezza. 

Bruno non è che per caso riesce a ridire qualche frase di questi alberi ricetrasmittenti? Anche solo una parola – lo pregò Tai.
Il vecchio rimase un attimo in silenzio, come se non si aspettasse di essere messo alla prova – mah, gli è tutto un parlare e ripetere, numeri, cose, sembra una lista della spesa diobono – cominciava a innervosirsi – come faccio a capire, parlassero almeno uno per volta! – quasi imprecò verso l’abete di fronte. Fece per alzarsi e Tai non lo trattenne, forse era meglio non fare altre domande.

Si allontanò e Tai rimase in silenzio ad ascoltare il fruscio dello stagno, le macchine dei viali in lontananza, qualche voce nel parco, ma proveniva da un gruppo di ragazzi sulle panchine. Vide Bruno raggiungere la zona dei pensionati, che lo accolsero con un grido di piacere, evidentemente era davvero il “sindaco” e guardiano del giardino.

Raggiunse la corteccia molto spessa di un cedro, dovevano essere tutti alberi risalenti alla seconda metà dell’800. Si guardò intorno per controllare che nessuno lo stesse osservando e velocemente appoggiò l’orecchio sinistro sul tronco. Stette immobile ad ascoltare. Chissà se il brusio dei pensieri rimane davvero aggrappato a qualcosa, poi d’un tratto: Tai? – una voce alle sue spalle. Si voltò e un ragazzo lo stava osservando incerto. Sì? – Tai! Sono Dioniso – ebbe un sussulto, una scarica di calore da capo a piedi. Dioniso, il suo primo migliore amico, al tempo delle elementari e medie.
Dioniso? – ripeté sconcertato. Lo riconobbe, i lineamenti ricordavano vagamente il suo amico, ma era completamente cambiato, nonostante gli occhi rotondi verde acqua, inconfondibili, il corpo era quello di un uomo di trent’anni, capelli scuri con lo stesso taglio corto che aveva da bambino. Tai era sconvolto, non tanto per il suo aspetto, quanto per il fatto che si era reso conto di non aver più pensato a lui, per almeno sedici anni. Da quando, forse un autunno durante la terza media, il suo amico aveva smesso di venire a scuola, senza preavviso, senza giustificazione delle insegnanti, senza bigliettini, senza risposte dei genitori, sparito da un giorno all’altro, ci aveva messo almeno sei mesi per riprendersi dal trauma. Era il primo e unico vero amico della sua infanzia. Ma dopo un semestre dalla sua scomparsa lo aveva del tutto dimenticato. Cancellato completamente dai suoi ricordi. Forse per proteggersi.

Non sapeva come comportarsi, abbracciarlo, dargli la mano? Rimase fermo, si avvicinò lui e lo abbracciò come fossero amici da oltre vent’anni. Era come abbracciare uno sconosciuto pensò Tai, il suo odore non gli ricordava nulla. Forse cercava ancora di proteggersi annullando le emozioni.

Come stai? Sei diventato altissimo!

Io bene, te? – rispose riluttante, quelle tre parole le aveva sempre ritenute prive di significato.

Dioniso cominciò a raccontare senza prendere fiato, che stava andando ad una visita, che stava ancora studiando, cose che riguardavano il cervello, tipo le neuroscienze, ma era fuori corso. Tai non proferiva parola, non lo ascoltava in verità, già era difficile il botta e risposta di cortesia con gli sconosciuti, con quell’amico scomparso lo era ancor di più. Sinceramente non gli importava nulla della sua vita di adesso.

Io al momento lavoro in un negozio in centro, part time, vivo fuori città, in affitto – sforzandosi riuscì a tirar fuori una risposta accettabile alle domande di routine. Ma era qualcos’altro quello che voleva dire, una domanda per la precisione, quella e nessun’altra, era l’unica cosa importante in quel momento.

Dioniso continuava a chiacchierare del più e del meno sulla vita a Firenze, avevano iniziato a camminare lentamente. Tai semplicemente annuiva, osservava il suo modo di parlare e soprattutto di ridere, si inarcava tutto verso il centro del petto, esattamente come da bambino, quando facevano stupidi giochi di parole in classe senza farsi beccare dagli insegnanti. Più lo riconosceva e più aveva paura. Era l’amico con cui aveva inventato mille cose, con cui aveva costruito una macchina del tempo di cartone, con cui era scappato nel bosco per dissotterrare scheletri e si erano persi per una notte andando pure al telegiornale, con cui aveva trovato un antichissimo manufatto etrusco in giardino rivelatosi poi un vaso da notte della bisnonna. Era l’amico con cui erano nati quei pochi ma importanti desideri che forse adesso lo tenevano davvero in vita. Non sapeva se sarebbe stato in grado di pronunciare quella domanda senza balbettii o inciampi della lingua. Dioniso invece sembrava far finta di nulla, il suo atteggiamento quasi cominciava a infastidirlo, continuava a parlare senza tregua, come se non fossero mai stati migliori amici.

Alla fine si decise, lo interruppe e sputò fuori le sue parole senza impedimenti. 

Perché sei scomparso!?

Si accorse che la sua domanda era uscita più grave, più profonda, di quanto si aspettasse, quasi priva di interrogazione, del tutto stonata rispetto alle chiacchiere allegre di Dioniso. D’un tratto il senso di abbandono che Tai che si era autonegato per sedici lunghi anni ripiombò addosso all’istante, sulle sue spalle, schiacciandolo verso il suolo. Quella domanda lo aveva trasformato in una versione precedente di se stesso, un ragazzino di dodici anni magro e olivastro. 

Dioniso si fece serio, guardava l’erba, un lungo sospiro eloquente lo rese consapevole che quella era la domanda scomoda che si aspettava, anche se aveva tentato invano di prendere il controllo della conversazione. Fecero ancora qualche passo in silenzio, Tai non gli toglieva gli occhi di dosso.

16 Novembre 2005, te lo ricordi? – Disse Dioniso rompendo la quiete. 

Preferisco di no, ma sì, mi ricordo.

Ecco Tai quello è proprio il giorno in cui sono morto.


continua…


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12 risposte a “Cap. 4 Gli alberi sono gli strumenti dei morti

  1. L’unico difetto d’una cosa perfetta è di essere incommentabile…
    Scrivendo questo commento mi trovo in una posizione impossibile, imbarazzante, ma anche felice, entusiasta di quello che ho appena letto.
    Rispetto al lungo commento che ti ho scritto per il capitolo precedente, qui tu mi hai dimostrato come la prosa non sia per forza propedeutica, e quindi funzionale, alla poesia, ma possa essere poetica in se stessa, e quindi fine a se stessa, ugualmente intensa e toccante, con i mezzi suoi propri…
    In altre parole, mi hai provato di avere torto, e sono così entusiasta del mio torto che non voglio più avere ragione…

    • Ahah, boh non so che dirti! Questo “romanzo” è solo un concretizzare visioni, personalità contrastanti, meccanismi o strutture verso cui sono sempre stata riluttante, e tutto attraverso un linguaggio semplicemente più asciutto, credo

      • Notavo proprio l’asciuttezza del linguaggio. Mentre in genere, nelle orge formali della poesia, si avverte, a volte con prepotenza, la discrepanza tra linguaggio e soggetto trattato, qui la tua scrittura è trasparente, si sovrappone senza farsi avvertire, aderendo pianamente, senza alterare, alle sue visioni. È una qualità della prosa che stai sperimentando.
        Da qui in poi però mi silenzio. Ti seguirò senza commenti perché, come dice Picasso: “Non si parla al conducente”.

      • I commenti in questo blog sono l’unica cosa che lo fa sopravvivere, non silenziarti! È una storia in divenire, per me chiunque la legga e partecipi alla sua evoluzione é il vero protagonista, il vero autore

  2. E’ uno splendido avvio di romanzo, riesci a farci sentire perfettamente la tensione, il disorientamento e l’ostinazione dei due protagonisti che cercano di discernere un senso nella realtà, nei dettagli e nell’insieme, è molto bello. Grazie, Rebecca, e complimenti, se continui così (e ho ragione di credere che non ti perderai per strada) ne verrà fuori un’opera notevole.

  3. Come sempre scrivi in modo avvolgente e rendi partecipi i lettori che non possono che ritrovarsi scaraventati nella storia che narri. La visione dei morti che ora possono parlare liberamente per tramite degli alberi in contrasto con la figura Dioniso che non riesce a dire quel che più interesserebbe Tai perché è morto dentro è semplicemente geniale…🔝

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