Sagome

lift off occhio rebecca lena

    Mille mani su tutte le pareti. Mani scolpite, ripassate col gesso, disegnate con grafite; sagome tremolanti o ben decise. Alcune sono riempite di brevi biografie, altre sono cornici di soli nomi.

Ne ho toccate molte, congelate sulla calce scura, le vedo spesso in questi antichi luoghi di pellegrinaggio. Qualcuno mi ha detto che sono segni votivi, altri che sono segni di partenza, o arrivo. Mi pare di sentirne il mormorio. Il fiume di corpi, odoroso, gli aromi di carni diverse sciolte sotto il sole, insieme a scarpe e vestiti. Gli sbuffi di polvere da tufo e sabbia che si sfaldano fra i capelli. Nessuno parla, ma gli aliti chiusi respirano affannati, il loro brusio trema nell’aria; non parlano, se non col proprio gessetto, o sasso bianco. Sono mille i corpi di fronte alle pareti, posano una mano sul muro, e grattano, incidono, ripassano la sagoma sulla calce.

Li osservo, questi contenitori singolari, appartengono a tempi lontani fra loro eppure paiono coesistere – in questo istante – agganciati alle loro impronte abbozzate. Mi sembra di impilare le loro esistenze trasparenti e osservare il pacchetto in controluce.

La loro buccia in pelle si rivela di vetro lucido. Sono bottiglie piene. E dentro ne posso osservare il succo caldo, piroettare, vortiginare tumultuoso e impulsivo, sprigionante gradazioni di colori meravigliosi; basta avvicinarsi alle labbra di qualcuno per percepirne la schiuma sulle pareti, il ritmo imprevedibile, il profumo irresistibile e infine quella frequenza ronzante, quella composta di accordi impossibili e allo stesso tempo sbalorditivi. Fuoriesce tagliente fra i denti, sottoforma di sibilo. È proprio quello il sibilo che ci attraversa uno ad uno, che attraversa le foglie, gli insetti, è come la frusta incessante che impedisce l’immobilità delle cose. Poiché tutto deve continuare a tremare, sempre; cambiare, mescolarsi, riassemblare.

Sono come botti di barrique, custodiscono il loro succo perché stagioni a lungo e torni più saporito. Già lo vedo quel calderone infinito d’anima universale, spumeggia di tutti i sapori del mondo, gorgoglia e s’infuria trepidante, in attesa di riempire una pelle nuova.

    Se ne sono andati, di nuovo. La cripta è buia e fresca. Ripercorro con gli occhi tutte le loro mani scolorite. Ve ne è una piccola e fine, al centro custodisce il nome di Lucia. Le mie dita, il palmo, combaciano perfettamente. La calce, me la ricordavo fredda. Ma d’un tratto il mio cuore inciampa, infrangendosi sui polmoni; la mano affonda dentro la sagoma come in un fango caldo. La lascio inabissare un po’ in quella melma vellutata, così come il mio cuore – dentro una pozza di stupore – e le dita scompaiono lentamente, affogate. Qualcosa tuttavia prende forma proprio al loro posto. E si innalzano, come vermi affusolati, altre dita. Dita di carne sporca, dita calde provenienti dall’altro lato del muro, posano i polpastrelli sulle mie nocche. La sento quella sua mano aldilà, la afferro, sfioro le sue nocche. Mi stringe. Una forza incredibile nelle sue dita, dentro le mie. Affondo ancora e sento il suo dorso, morbido e umido. Fiducia, è tutto ciò che riesco a distinguere tra le viscere accavallate del mio cuore. La stringo, tanto che il polso comincia a tremare. Le sue dita si muovono, tastano la mia pelle, le mie ossa, con intensa delicatezza. Poi uno scricchiolio improvviso, come di sassi calpestati, mi costringe a voltarmi. Turisti.

Rivolgo di nuovo gli occhi alla parete, ma la mia mano posa immobile sulla superficie dura, incorniciata da quella sagoma antica, solida e piatta. Raccolgo in terra un mattoncino rosso levigato dal tempo. Scrivo il mio nome, dentro quella forma, sotto quello di Lucia.

    Le mani comgelate mi osservano nel buio. Raggiungo le scale dell’uscita, calde di sole, senza voltarmi, anche se vorrei incidere il mio nome dentro ognuna di loro.

 
Dedicato a tutte le mani del santuario di Monte Sant’Angelo e a quella di Lucia nella Chiesa di Siponto, a Manfredonia.
 

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16 risposte a “Sagome

  1. maledetti turisti…
    : )
    avvolgente questo fango caldo di parole. il tatto, insieme all’olfatto, è un senso “primordiale” e come tale affonda le proprie radici nei meandri più morbidi e viscerali del cervello…
    ohi, anche stavolta non ti fa difetto la forza evocativa, una tua personalissima rivisitazione della liturgia della parola dove il verbo si fa carne “sporca”, e proprio per questo diventa più tangibile ed umana.
    azzeccato, poi, l’interrompersi dell’incanto che m’ha fatto pensare ad una sorta di “interferenza di canale sensoriale”, visto che l’assoluta immedesimazione tattile viene incrinata da una intrusione uditiva (lo *scricchiolio*, più che la presenza fisica dei turisti).
    (occhio, refuso: comgelate)

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    • grazie mille! :))
      ti consiglio di ascoltare questo breve brano, scritto da un mio amico chitarrista, si intitola appunto “La mano di Lucia” e ripercorre musicalmente le vicende del racconto

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