La (circo)inscrivibilità di 〇

D’ora in poi userò 〇 come non luogo, di indagine e memoria.

Sono sopra uno dei massi megalitici di Poggio Rota, c’è una risonanza cava. 〇 è quell’impronta di vuoto, più tua che mia. Osservo infatti le coppelle che costellano i massi di tufo, sono messaggi, codici da decifrare.

La cavità è un luogo di fertilità, mi dico, perché può custodire l’acqua del cielo. E quel poco basta per creare vita organica e sacro. Queste cavità le vedo sintetizzate anche sui palmi delle tue mani. Accogliere e donare è infatti ciò che abita 〇.

Ho sognato che in un punto preciso del bosco – dotato di coordinate – sostava un nostro abbraccio. Stava lì, non so come. Intendo proprio l’abbraccio in sé, il concetto di incastro fra persone, un limite unionale, forse scolpito, scavato, magari rappresentato proprio da 〇, non saprei, non potevo vederlo, ma era lì, ne ero sicura. Cercavo un sentiero per raggiungerlo.

Nella realtà, invece, in quel luogo esatto il giorno precedente, aveva sostato un non abbraccio, un’assenza di contatto. Potenzialità sospesa in aria, fiutata con l’abilità di un animale del bosco. Ma anche il non accadere appartiene a 〇.

Ho notato che se condivido con te il senso del sacro, ovvero il mio sguardo su di esso, quello inevitabilmente si amplifica e assume uno spessore. Come se l’aggiunta di un punto di vista ne configurasse la dimensione spaziale. Il tuo non è un punto di vista qualunque, è quello che attraversa dritto 〇, con sfacciataggine di bambino, e lo buca, anche quando questo è, da tempo, un fossile. Mi sento spesso un essere frattale di occhi foraminiferi quando ti guardo attraverso 〇.

Penso che sia giusto non afferrare le cose, ma solo contemplarle, appunto come i paesaggi, i fossili, i megaliti che puntano l’equinozio o gli abbracci mai accaduti. Il non ottenere ciò che si osserva – e quindi ciò che si desidera – genera reazioni cinetiche davvero potenti, come due altissime pareti di tufo, vicine, ma che non si toccano mai. Fra loro l’energia del vento accelera.

A volte accosto il mistero di vivere e di morire ad una corrente fresca – improvvisa – che scivola via da quelle cattedrali in tufo.

E poi quando contempli 〇, non hai bisogno di afferrare 〇. Diventi tu stesso 〇. 

Là, ero sola? Ho sempre detto di sì, perché l’incontro di due o più solitudini non crea compagnia, ma una solitudine più ampia, estesa al bosco intero. Ma due o più solitudini non hanno paura di affrontare una sepoltura buia nella memoria primordiale. Poco dopo abbiamo scavato una galleria nell’utero ipogeo del bosco, 5000 anni fa, per seppellirci dentro il concetto di nostalgia; un po’ come facevano gli antichi con le cose toccate dai fulmini. 

Quando incontro un’altra – mia – solitudine accade sempre di essere (s)colpita da un fulmine. 

Dentro 〇 c’è anche un momento per il sonno che, molto spesso, si avvicina all’eterno. Un pomeriggio ti ho visto addormentato e improvvisamente ho perso la stanchezza. Mi sono sentita responsabile di vegliare e custodire il tuo vuoto, circoscrivendolo a 〇. Come un rituale.

Poi è successa una magia strana: ciò che sentivo fuori, in allerta – in quanto animale – in realtà accadeva dentro: un brusio di insetti, volatili e frascame, impegnati nelle loro faccende quotidiane. Sentivo benissimo la vibrazione di un picchio che scolpiva l’interno del mio costato. O un Cerambycidae nascere fra i miei muscoli dopo un’attesa di 5 lunghi anni.
Ho capito che la dimensione esterna non era altro che una cassa di risonanza di un affaccendarsi interiore.

〇 mi ricorda che l’alterità è specchio dell’individualità e viceversa. Bisogna stare attenti a non confonderci troppo col bosco stesso. Ne abbiamo già assorbito l’odore.

Non cerco una spiegazione, ma forse in quel momento il tuo oblio mi aveva contagiata. Magari tu stesso, abbandonato un attimo il corpo, eri scivolato qui dentro, incontrando la forma di ロ, che è appunto la mia. Ora che ci penso, non dovremmo mutare la nostra forma quantica per incontrarci, basta trovare i punti di (circo)inscrivibilità.

Chi contiene chi? È la domanda non domanda.

Sento infatti di essere naturalmente inscrivibile e circoscrivibile a 〇, da sempre.

Magari è proprio il sogno, l’intersezione delle cose che accadono e contemporaneamente mancano l’accadere, la tangenza di cose che corrispondono la nostalgia di spazi stretti e bui, o di cose che corrispondono e basta. L’abbraccio di 〇 a ロ, e viceversa.

6 risposte a “La (circo)inscrivibilità di 〇

  1. L’ho riletto diverse volte; se lo si legge come un brano di scrittura si ha l’impressione che in certi passaggi non scorra bene, come se la corrente ristagnasse, ma se lo si legge come un brano di musica scivola via meravigliosamente, un flusso armonioso ininterrotto. Complimenti, sei prossima alla perfezione.

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